Pubblicato da: miclischi | 8 aprile 2024

Qualche prova con la Pentax SF 7: soddisfacente

A

Una Pentax da provare!

Fa sempre piacere trovarsi fra le mani una macchina fotografica mai usata prima, tanto per farci qualche scatto di prova. E così fu con la Pentax SF7 ricevuta in prestito proprio per vedere se e come funzionasse.

Fa particolarmente piacere trovarsi fra le mani una Pentax per chi ha avuto lunghe frequentazioni con la MX e la ME Super. Anche se si trattava di un’altra epoca e di altre macchine. Questa SF7, prodotta alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, ha il trascinamento automatico, l’autofocus, insomma altra roba.

Una macchina che richiede un po’ di pazienza per esplorare le varie opzioni, le funzionalità dei vari pippoli e le varie rotelle, le indicazioni del display, eccetera.

A parte l’autofocus (disinseribile), questa macchina è predisposta per scattare in modalità manuale, oppure in automatico a priorità di diaframmi o di tempo di otturazione. Ed è proprio per scegliere fra queste opzioni che ci vuole un bel po’ di pazienza. Alla fine, però, funziona.

Pentax SF7

Lo zoom 28-80 è abbastanza ingombrante.

C’è voluto un bel po’ per trovare in che modo poter praticare delle sovra- o sotto-esposizioni volute, ma alla fine poi ci si è riusciti.

Una particolarità, abbastanza comune a partire da una certa epoca, è che la sensibilità della pellicola non va inserita manualmente (non si può proprio!) ma viene letta automaticamente dalle barrette di segnalazione sul rullino. Quindi niente rullini bobinati domesticamente, oppure esposizioni tirate, o pellicole Fomapan. Se la macchina non legge nessun codice sul rullino, la sensibilità è automaticamente settata su 100 ASA.

Pentax SF display

Ci vuole un po’ di impegno per familiarizzarsi con i comandi e con il display.

Una macchina abbastanza pesantuccia ma tutto sommato abbastanza ergonomica, soprattutto quando si è presa confidenza con i vari comandi (sostanzialmente una rotella zigrinata accanto al pulsante di scatto che permette di agire sull’esposizione).

Oltre alla selezione del programma da utilizzare usando il pulsante MODE e l’inserimento o il dis-inserimento del diaframma automatico sulla relativa ghiera.

Per orientarsi fra le varie opzioni e familiarizzare con i vari comandi torna utilissimo, come sempre il sito web di Mike Butkus dal quale si può scaricare il manuale di istruzioni in formato pdf.

Pentax prove Ila Bea

Dal primo rullo di prova: cliccando sull’immagine si accede all’album che contiene tutta la serie.

Lo zoom in dotazione della macchina in questione è un Pentax F Zoom 28-80 con opzione macro e apertura massima di 3.5 o 4.5 a seconda della focale scelta. Dato che si tratta di un apparecchio motorizzato, è possibile scegliere se fare scatti singoli oppure in sequenza. C’è anche un flash incorporato che però, in questa specifica macchina, non è stato possibile provare perché non funzionava.

E le prove pratiche? Sono stati scattati due rullini, ovviamente con codice di sensibilità. Il primo un Kentmere 400 e il secondo un Ilford FP4. Il primo sviluppato in Microphen e il secondo in ID11, entrambi in soluzione stock.

picasion.com_Pentax SF7 ritratti

Nel secondo rullo si è deciso di concentrarsi su ritratti più ravvicinati.

I test sono risultati tutto sommato soddisfacenti, anche per la versatilità dello zoom. In particolare si è approfittato del medio-tele alla massima estensione (80mm) per fare dei ritratti.

Ma anche del grandangolo per delle foto sul lungomare affollato, e simili.

E in alcuni casi ci si è spinti a usare anche l’opzione macro per i ritratti particolarmente ravvicinati. Di macro vere e proprie (cioè davvero ravvicinatissime) se nono scattate proprio poche, anche perché non si è presa la briga si montare l’illuminatore anulare. Ma anche le poche prove fatte sono risultate soddisfacenti.

Insomma una macchina versatile, di qualità, che alla fine ha passato il test. Anche se, bisogna ripeterlo, le modalità di esposizione nelle varie opzioni non sono particolarmente user friendly.

Per la cronaca: un piccolo album web con foto scattate in interno, dal primo rullo di prova, si trova qui.

Pentax SF7 macro

Uno dei pochissimi scatti macro, dal secondo rullo di prova.

Pubblicato da: miclischi | 3 aprile 2024

I primi racconti di Nicola Lecca: una bellissima scoperta

Lecca concerti

Pubblicato da Marsilio nel 1999

Uno scrittore italiano (anzi, sardo) che ha scritto parecchi libri pubblicati da editori prestigiosi, alcuni premiati… Insomma un autore importante, che però non si conosceva e di cui non si era mai letto niente: Nicola Lecca.

Poi arrivò un libro da una bancarella (grazie Sandra!). Fra l’altro, come a volte succede nei libri usati, con dedica dell’autore a un certo Sebastiano…

Si tratta di una raccolta di otto racconti dal titolo Concerti senza orchestra, pubblicata quando l’autore era poco più che ventenne. Come lascia presagire il titolo, si parla parecchio di musica in queste storie, tanto che alla fine c’è anche un minuzioso indice dei compositori e delle opere citate. E anche il titolo stesso prende spunto dalla Sonata per pianoforte n. 3 in fa minore, op. 14 di Robert Schumann, composizione che venne chiamata da Tobias Haslinger, appunto, Concerto senza orchestra. E pare che Schumann sia forse uno dei compositori preferiti dall’autore, visto che sono proprio le opere di questo musicista che sono le più numerose fra quelle citate…

La musica c’è nei racconti, e come: ci sono compositori, interpreti, appassionati… E questa importanza della musica nella crescita e la maturazione dell’autore viene sottolineata più volte. Per esempio, così dice il protagonista del quarto racconto:

I giovani della mia età nel borgo erano pochi; in nessuno di loro, comunque, la musica classica destava il minimo interesse, sembrava piuttosto che bucasse le loro anime fredde, trapassandole senza lasciare alcuna traccia.

Oppure nel racconto di chiusura:

… ho sempre ascoltato la musica classica, approfondendone la conoscenza con accurate letture di biografie e testi critici sui musicisti più celebri e sulle loro opere maggiormente rappresentative.

Ma, al di là della musica,  c’è forse un tema che su tutti prevale in tutte le storie: il disagio. In questi otto racconti (ognuno degli otto capitoli è preceduto da una nota in senso musicale: progressivamente la scala di do maggiore) Lecca racconta una variegata campionatura di disagi: il disagio dell’esistenza, le difficoltà nelle relazioni interpersonali,  familiari e affettive, la vecchiaia che fa perdere la lucidità (e ancor più la capacità di comporre musica) e obbliga ad affrontare i lutti. Oppure, l’ansia di non riuscire a superare un esame, vincere un concorso, esibirsi in pubblico durante un concerto. Ma, davvero, la musica fa da contorno alle vicende più strettamente intime dei personaggi. Fra l’altro anche Schumann, in termini di disagio, la sua parte l’ha fatta…

Stupisce davvero che uno scrittore così giovane riesca con disinvoltura a narrare le angosce di un anziano. Oppure a orientarsi con approfondita conoscenza in tante varie città europee, che sia nelle sale da concerto o nei locali o ristoranti in cui i personaggi si rifugiano, o a scrivere in prima persona al femminile. Eppure tutto questo c’è, e la scoperta delle abilità narrative di Nicola Lecca – già da giovanissimo! – è stata davvero una grandissima scoperta. Ora c’è tanto ancora da esplorare…

Per la cronaca: Pare che l’edizione originale non sia più disponibile nel catalogo Marsilio (ma si trova facilmente sul mercato dei libri usati). In compenso, il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Casa Editrice Il Maestrale.

Pubblicato da: miclischi | 27 marzo 2024

Baumgartner: Paul Auster torna a stupire

Baumgartner

Uscito nel 2023 da Faber.

Può succedere. Un appassionato lettore scopre un nuovo autore, si entusiasma e comincia a leggere libro dopo libro, man mano che vengono pubblicati. Poi però può accadere che la passione cali: pare che l’autore abbia perso la sua verve narrativa o le sue proprietà espressive. E dopo qualche delusione si lascia perdere quell’autore, non se ne legge più niente. Questo fu quel che successe con Paul Auster.

Dopo tante appassionanti e coinvolgenti letture austeriane (una fra tutte: The Book of Illusions), l’interesse cominciò a calare con la lettura di Invisible e calò del tutto con Sunset Park.

Dopo oltre dieci anni, arrivò in regalo (grazie Sandra!) il suo libro più recente: Baumgartner.

Un libro che cattura fin dalla primissime pagine con la sua scrittura quasi incerta, eppur convincente, instabile eppur profonda, forse proprio come il protagonista del romanzo, lui, Baumgartner. Intellettuale, scrittore, professore universitario.

Un libro sull’invecchiamento, sulle giornate passate a casa nell’incertezza, nella confusione mentale (un po’ di demenza senile è in arrivo), con dimenticanze e sbadataggini (e anche qualche piccolo incidente domestico). Un libro che riflette sui cambiamenti imposti dall’avanzare dell’età, il che non può non richiamare alla memoria l’ultimo sforzo poetico di T. S. Eliot, i Quattro quartetti su cui si ragionò a suo tempo qui.

Ma è anche un romanzo d’amore, perché all’instabilità mentale del protagonista fa da contraltare l’estrema lucidità con cui lui ricorda Anna, l’amore indimenticabile della sua vita,  scomparsa prematuramente, dieci anni prima, in un incidente di surf. Era scrittrice e traduttrice, Anna, e le sue cose, il suo studio, la sua macchina per scrivere, i suoi scritti sono mantenuti in ordine come se lei dovesse riapparire da un momento all’altro per riprendere il suo lavoro.

Baumgartner italiano

Pubblicato in Italia da Einaudi nel 2023 nella traduzione di Cristiana Mennella.

C’è il rapporto con Anna, rivissuto quotidianamente, ma ci sono anche i rapporti con le persone, con alcune donne (e con una in particolare) con cui cerca invano di rifarsi una vita di coppia. Ma ci sono i suoi colleghi all’università, anche l’omino che viene a leggere il contatore e con cui costruisce uno stretto rapporto. E poi la ricercatrice che sta per arrivare per mettere mano agli scritti di Anna, fatto che lo spinge a ristrutturare la casa e in particolare la dépendance in cui la ospiterà. E’ quindi anche un libro sulla diversità e complessità dei rapporti interpersonali.

Ma è anche in romanzo sulla convivenza di presente e passato. Rivanga spesso la sua vita, il protagonista, oltre a quella di Anna, e va anche a ripescare le vicende dei propri avi e di quelli di lei. Storie di immigrazione, di adolescenze difficili, di contrasti sociali… Il libro è costruito proprio come un caleidoscopio che mescola di continuo il presente e il passato, conditi qua e là da sogni e immaginazioni.

A costellare questo mosaico affascinante sono inseriti, qua e là, brani dai diari e dagli scritti di Anna (oltre ad  alcune poesie che ha anche fatto pubblicare), ma anche alcuni scritti del protagonista. Un caleidoscopio nel caleidoscopio.

Via giù, riscoprire la bellezza nella scrittura di Paul Auster a distanza di parecchi anni è stata proprio una piacevolissima sorpresa!

Pubblicato da: miclischi | 25 marzo 2024

Una Minolta A5 dal mercatino di Marina

Minolta A5

Una macchina a telemetro niente male.

Riecco una macchina fotografica dal mercatino della terza domenica del mese a Marina di Pisa. Stavolta attirò l’attenzione una Minolta A5, apparentemente in  buono stato, con custodia originale in pelle, e poi ai classici du’ bicci…

Per un leicista le macchine a telemetro hanno un fascino tutto particolare, anche se nelle macchine di una certa età lo specchio semitrasparente per la messa a fuoco spesso si è slavato e quindi il telemetro serve a ben poco. Naturalmente prima dell’acquisto fu testato il funzionamento della messa a fuoco (in un riquadro centrale nel mirino); risultò efficiente e quindi fu deciso di prenderla e provarla.

Macchina pesantuccia, come si usava una volta, ma abbastanza compatta. Obiettivo fisso Minolta Rokkor 45mm con apertura massima 2.8. Tempi di otturazione fino a 1/500, indicatore di profondità di campo sulla ghiera delle distanze, autoscatto (funzionante!), contapose azzerabile, contatti M e X per il flash, slitta porta accessori. Insomma non ci manca niente (a parte l’esposimetro…). Importante: sul dorso della macchina c’è anche un memo per indicare la pellicola che si è caricata. Inoltre non si è dipendenti dalla custodia (pur se solida e affidabile) per appendersi la macchina al collo, dato che ci sono anche gli inserti appositi ai lati della macchina la quale, quindi, può essere utilizzata facilmente anche “nuda”. Il manuale della macchina, come di consueto, si può trovare su sito web di Mike Buktus.

Miniolta A5-2

Pesantuccia ma abbastanza compatta.

Naturalmente furono scattati un paio di rulli di prova. All’atto pratico emersero solo due perplessità. Una del tutto soggettiva, legata alla focale dell’obiettivo. Per chi è abituato a usare principalmente un grandangolo o un medio-tele, questi 45 mm risultano un po’ come né carne né pesce. E anche rispetto ai classicissimi 50 mm dell’obiettivo “normale”, insomma, via, questa via di mezzo fra il normale e il grandangolo non appassionò più di tanto.

Minolta Foto Michele Lischi_900

Mamma e figlia (zia e cugina).

Poi c’è una questione un po’ pratica legata al posizionamento della ghiera della messa a fuoco. Mentre per tempi e diaframmi c’è un chiaro punto di riferimento (lo stesso per entrambi) in posizione leggermente laterale sull’obiettivo, per le scale delle distanze (ce ne sono due, una in metri e una in piedi) il punto di riferimento non è così evidente. Alla fine lo si trova in mezzo alla sequenza dei diaframmi alla base dell’obiettivo, quella che indica appunto come varia la profondità di campo al variare  del diaframma e della distanza. Si dirà: ma a che serve guardare la ghiera della messa a fuoco se c’è il telemetro? Giustappunto: se si vuole impostare la distanza tenendo conto della profondità di campo ci vuole un riferimento preciso. E qui è solo vagamente accennato.. Via giù, c’est pas grave.

E le foto di prova? Per motivi insondabili stavolta non ci si dedicò quasi per niente a ritratti (complice l’obiettivo inadatto?) ma a degli scatti di panorami urbani o rurali realizzati durante varie giratine nei dintorni: a Pisa, a Lucca, a Coltano e a Marina. Una piccola eccezione: alcune foto a una festa di compleanno ed altre al laboratorio con Animali Celesti a Coltano.

Minolta Foto Michele Lischi_915

A Coltano con gli Animali Celesti.

Complessivamente l’ergonomicità della macchina è risultata soddisfacente, anche se bisogna stare attenti (come sa chi usa le vecchie Leica) che la leva del trascinamento va spinta proprio fino in fondo, altrimenti i fotogrammi sul negativo risulteranno adiacenti e non separati.

Per le prove furono utilizzate pellicole Fomapan 200 e 400, entrambe esposte a 400 ASA (tanto i tempi di sviluppo in ID11 sono uguali e anche la resa appare parecchio simile).

Insomma, la prova è andata più che bene. La macchina funziona bene, le foto sono risultate soddisfacenti, e poi come detto tornare a scattare mettendo a fuoco con il telemetro rappresenta davvero un gradevolissimo tuffo nel passato!

picasion.com_Minolta A5

Scatti in giro con la Minolta A5. Cliccando sulle immagini si va sull’album web che contiene una più ricca selezione degli scatti di prova.

bartoli-teatro

Si chiude con Mozart.

Venerdì 15 marzo 2024: la prima delle due rappresentazioni dell’ultima opera in stagione al Teatro Verdi: Così fan tutte di Mozart. Dopo un Rossini, due Puccini e un Monteverdi (niente Verdi!), si chiude con la terza opera frutto del lavoro di Mozart con il librettista Lorenzo da Ponte.

Come di consueto, la sera prima l’opera è stata presentata al pubblico dal Direttore Artistico del Teatro, il Maestro Christian Carrara. Una presentazione, come di consueto, ricchissima e interessante, concentrata principalmente su un aspetto: lo iato fra le intenzioni del librettista, che scrive un testo divertente e buffo, e quelle del compositore non propenso più di tanto a celebrare il libero amore, gli scambi di coppia, insomma la licenziosità dei temi trattati. E infatti la musica non è proprio quel che ci si aspetterebbe in una presunta opera buffa. Forse è per questo che fra le tre opere del duo Mozart/Da Ponte questa è la meno rappresentata, la meno conosciuta, forse la meno apprezzata dal pubblico in generale. Mentre più di un musicista con cui si sono scambiate due parole la considera invece la più profonda e coinvolgente, almeno dal punto di vista musicale.

A condire questa situazione ecco le scene e i costumi di Milo Manara, accostatosi per la prima volta all’opera lirica alla sua veneranda età. C’era chi si aspettava (o temeva) rappresentazioni un po’ troppo spinte, mentre invece, come affermato dal regista dell’opera, Stefano Vizioli, nelle sue note di regia, quello di Milo Manara è un segno giocoso, colorato e vagamente licenzioso. E così infatti è stato.

Da Ponte

Si andò a ripescare il libro comprato alla Libreria del Lungarno nel 1992…

Insomma eccoci a teatro! Si comincia con l’Ouverture la quale, come sottolineato dal Maestro Carrara durante la presentazione, anche questa non è che si presenti poi tanto come preludio a un’opera buffa… Ma l’Orchestra della Toscana sotto la guida del Maestro Aldo Sisillo ci fa fin da subito la sua figura. Una riuscita amalgama fra tutte le sezioni, una conduzione precisa, insomma una goduria. E poi, nello svolgersi dell’opera, emerge con particolare evidenza la sezione dei legni che in quest’opera hanno forse un ruolo dominante: una goduria nella goduria. Completa il quadro musicale il Maestro Riccardo Mascia alla tastiera, con gustosi accompagnamenti dei recitativi.

E le voci? Come preannunciato, il Coro Arché, diretto dal Maestro Marco Bargagna, non compare mai in scena. Ma la sua parte la ha fatta proprio bene. Sì, l’orchestra, il coro… ma i cantanti?

Succede raramente, ma proprio raramente, che tutti i cantanti solisti in un’opera lirica risultino più che soddisfacenti. Ma in questa rappresentazione di Così fan tutte si è verificata proprio questa rara situazione. Belle voci (progressivamente ancor più apprezzate nel secondo atto), controllate ed espressive in tutti i registri, movimenti scenici abbondanti e funzionali, gestualità… (anche il regista Stefano Vizioli ha fatto proprio in bel lavoro!). Insomma, non mancava proprio niente. Forse proprio a conferma del concetto di coralità espresso dal Maestro Carrara alla vigilia della prima, i solisti è come se si fossero coalizzati per la buona riuscita di tutte le scene, e proprio così è stato.

E’ giusto citarli tutti, i sei solisti, perché tutti hanno davvero ben figurato, meritandosi frequenti applausi a scena aperta.

Così Fan Tutte_Teatro Verdi di Pisa__15-03-2024_photo by Kiwi_1

All’inizio della seconda scena si nota subito l’impronta di Milo Manara: Fiordiligi (Maria Mudryak) e Dorabella (Lilly Jørstad) sono un po’ scollacciate in una vasca da bagno! Foto Kiwi Official – Diego Bianchi.

Don Alfonso, interpretato da Emanuele Cordaro, si presenta subito come greve e autorevole, con una bella voce profonda ed espressiva, convincente in tutti i momenti dell’opera. Fiordiligi interpretata da Maria Mudryak ha centrato appieno il ruolo della meno propensa, fra le due sorelle, a lasciarsi andare alle passioni. Estensione amplissima della voce richiesta dalla partitura, ed egregiamente interpretata dalla Mudryak. Più disinvolto il personaggio di Dorabella, interpretata da Lilly Jørstad, anche lei sempre a suo agio con una voce convincente. Il personaggio perno dell’opera, Despina, è qui interpretata da Francesca Cucuzza. Estrosissima nel suo ruolo di mattacchiona, nei travestimenti, negli infiniti ammiccamenti, il tutto condito da una voce bella, possente, espressiva. Poi ci sono loro, i cellettoni, i giovanottoni ingenui e manovrati dai giochi di Don Alfonso. Guglielmo e Ferrando, interpretati rispettivamente da Jiri Rajnis e Antonio Mandrillo: hanno convinto e come, con le loro diversissime voci (così come sono diverse quelle delle due sorelle, in questo gioco delle simmetrie/asimmetrie sottolineato dal Maestro Carrara), espressive, adeguate, convincenti. Anche loro chiamati a innumerevoli movimenti scenici, gestualità, atteggiamenti.

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Le scene “vagamente licenziose” di Milo Manara. Foto Kiwi Official – Diego Bianchi.

Forse non è un caso che all’applausometro finale i sei cantanti siano stati tutti acclamati con lo stesso entusiasmo da parte del pubblico, come orchestra e coro, forse con un lieve sbilanciamento di volume a favore della Fiordiligi interpretata da Maria Mudryak.

Insomma una serata davvero bellissima, in cui ha funzionato tutto: voci, orchestra, scene, regia, luci… davvero non si poteva immaginare una migliore chiusura di stagione. Il cartellone completo si trova qui.

Se si volesse segnalare un brano dell’opera che ha colpito particolarmente, per la sua quasi-sacralità, per la delicatezza e intensità dell’esecuzione, viene subito da pensare al terzetto Soave sia il vento, Tranquilla sia l’onda.  Davvero un’intensità pazzesca.

Ci si ritrova al Verdi in autunno per la prossima stagione! Questa è andata nel complesso più che bene!

Così Fan Tutte_Teatro Verdi di Pisa__15-03-2024_photo by Kiwi_7

Soave sia il vento, Tranquilla sia l’onda. Foto Kiwi Official – Diego Bianchi.

Pubblicato da: miclischi | 18 marzo 2024

Stefan Zweig: Il mondo di ieri. E quello di oggi?

Il mondo di ieri

Bella traduzione di Lorena Paladino.

Un libro massiccio di un autore mai letto prima. Un bel regalo (grazie Giorgio!). Un libro letto con passione, un susseguirsi di fatti e di persone nella testimonianza personale di Stefan Zweig. Si tratta del racconto delle vicende vissute dall’autore dal periodo antecedente la prima guerra mondiale fino alla vigilia della seconda. A Vienna, in Austria, ma anche in giro per l’Europa e poi negli Stati Uniti. Il mondo di ieri, pubblicato in Italia da Garzanti nella splendida e fluidissima traduzione di Lorena Paladino.

E’ un libro angosciante perché, tranne che nel periodo iniziale, sono angoscianti i tempi vissuti dall’autore. Soprattutto se confrontati ai tempi felici della sua giovinezza, quando si poteva concentrare sui piaceri dell’apprendimento scolastico, della ricerca letteraria, della cultura nel suo insieme. Quando l’arricchimento e il piacere derivavano principalmente proprio dalla crescita culturale. Con la guerra, il dopoguerra e l’imminente arrivo del successivo conflitto tutto ciò scompare. Perché?

Se oggi, con il senno di poi, ci si chiedesse perché l’Europa nel 1914 sia entrata in guerra, non si riuscirebbe a trovare neppure un motivo ragionevole, quasi nemmeno un pretesto plausibile. In effetti, non fu questione d’ideologie contrastanti e a mala pena di confini; non riesco a spiegarlo altrimenti se non per questo surplus di forza, drammatica conseguenza di quel dinamismo interiore accumulatosi in quei quarant’anni di pace e che necessitava ora di uno sforzo violento.

Ci sono tanti momenti gioiosi,  nonostante tutto, proprio perché l’instancabile desiderio di alimentare il proprio sapere, interagire con gli altri, arricchirsi intellettualmente, spinge Zweig a concentrarsi proprio su quello anche nei momenti difficili. E meno male, altrimenti la lettura sarebbe stata forse troppo pesante. Ci sono gli incontri con Joyce, con von Hoffmansthal, Freud, Richard Strauss, Rilke… e tanti altri. Fitti scambi di idee, opinioni, saperi che arricchiscono la vita dell’autore e la gioia del lettore.

Zweig

Stefan Zweig (dalla pagina Wikipedia).

Ma il desiderio di potere e di controllo sembra prevalere e si prepara una nuova guerra, stavolta con l’aggravante delle implicazioni razziste e antisemite (Zweig si rifugia a Londra). E qui l’autore, reduce dalla delusione della precedente guerra, esprime la sua intolleranza per chi fa finta di niente.

… tutte le persone che incontrai a Vienna mostravano una serena spensieratezza: si scambiavano inviti per serate in smoking e frac senza immaginare che ben presto avrebbero indossato la divisa dei detenuti dei campi di concentramento, prendevano d’assalto i negozi per i regali di Natale destinati a riempire le loro belle case senza pensare che qualche mese più tardi sarebbero state loro confiscate e saccheggiate.

Una racconto di varie fasi della vita, un’autobiografia insomma; ma colpisce il fatto che l’autore cerca di staccarsi da sé per concentrarsi soprattutto sulle situazioni e le persone con cui si è relazionato, più che sulla sua vita personale. Un esempio fra tutti: vengono menzionate solo quasi di sfuggita le sue due mogli…

La lettura di questo libro appassionante ha richiamato alla memoria quella del romanzo storico di Francesco Pasqualetti, La regina della notte, di cui si ragionò a suo tempo qui. Al momento di quella lettura si era all’inizio della guerra in Ukraina, una guerra che dura da oltre due anni. E poi ora c’è anche la guerra in Medio Oriente. Questo libro di Zweig (che racconta l’inizio del Novecento), come quello di Pasqualetti (ambientato alla fine del Settecento), sembrano ripeterci con insistenza la stessa domanda: la storia non ci ha insegnato niente? Oppure: la storia ci conferma che non ci sono speranze per un futuro senza guerre in Europa?

Stalingrado

Pubblicato in Italia da Bompiani nel 1949 nella traduzione di Amina Pandolfi.

A proposito di guerre, il caso volle che proprio nel periodo in cui fu letto il libro di Zweig si completasse la lettura cessile (che quindi è durata parecchio) di un vecchio libro emerso dalla biblioteca di Luciano Lischi. Una bella edizione Bompiani un po’ sbertucciata. Si tratta di Stalingrado dello scrittore tedesco Theodor Plievier (prima edizione in tedesco: 1948; in italiano: 1949). A quanto pare adesso il libro è reperibile solo sul mercato dell’usato.

Si tratta di un dettagliatissimo resoconto delle ultime fasi della disfatta dell’esercito tedesco in seguito alla cosiddetta battaglia di Stalingrado. Un’attenzione quasi maniacale al dettaglio, alla descrizione delle singole persone (persone prima che soldati) abbandonati a sé stessi al freddo e al gelo, senza cibo, senza medicine, senza speranze. Abbandonati da un regime nel quale ogni giorno credono sempre di meno. Condannati a morte: che sia una bomba sovietica, o la cancrena, o il congelamento, la sfinitezza, o anche la decisione di togliersi la vita. Insomma un libro assai pesante che fortunatamente è stato letto a piccole dosi…

Bene, ora basta con i libri sulle guerre, speriamo proprio di voltare pagina con le prossime letture!

Per la cronaca 1: Nel 2016 è stato realizzato da Maria Schrader il film documentario dal titolo Stefan Zweig: Farewell to Europe. Il trailer si può vedere qui.

Per la cronaca 2: A proposito di guerre e considerazioni sulle guerre: ritornarono in mente alcune considerazioni di Tiziano Terzani. In occasione dell’uscita del suo libro Lettere contro la guerra fu intervistato per RaiNews24. Il video dell’intervista si può vedere qui.

Pubblicato da: miclischi | 19 febbraio 2024

Bertrand Schefer racconta Francesca Woodman

francesca-woodman

Pubblicato da P.O.L. nel 2023.

Si può costruire un rapporto intenso con una persona morta da vent’anni, ricostruire le sue vicende umane e artistiche attraverso le numerose foto da lei scattate (per lo più autoritratti), appassionarsi sempre di più e infine, a distanza di altri vent’anni, raccontare questa storia? Ebbene sì, è quel che ha fatto Bertrtand Schefer nel suo libro breve ma intenso dal titolo Francesca Woodman.

Parla di sé, Schefer, del suo primo incontro con la fotografa Francesca Woodman, fino ad allora a lui sconosciuta, trovandosi fra le mani il catalogo di una sua mostra. Un incontro che cambierà la sua vita, che lo spingerà a cercare, indagare, approfondire.

J’ai voulu te donner un ordre, te remettre en ordre, t’enfermer dans les pages d’un livre, qu’on fasse un peu quelque chose ensemble même si j’ai bien conscience qu’il est un peu trop tard.

Un libriccino proprio breve, ma davvero densissimo di fatti, idee, sensazioni. Si alternano brevi narrazioni sull’esperienza personale di Schefer con la ricostruzione di pezzi di vita della Woodman: i soggiorni all’Antella vicino a Firenze fin dall’infanzia, poi il percorso scolastico e artistico negli Stati Uniti, il periodo romano alla fine degli anni ’70 e la tragica decisione di porre fine alla propria vita, quando ancora non aveva ventitré anni.

Mostra Francesca Woodman

La mostra di Francesca Woodman in libreria a Roma nel 2011.

Fra i tanti frammenti di vita della fotografa americana, un episodio importantissimo: quando il padre le regalò per il suo tredicesimo compleanno una Yashica 635. Eccola qual era quella biottica che si vede nei suoi scatti allo specchio. Una macchina che fra l’altro permette agevolmente di scattare doppie esposizioni (a differenza della Rolleiflex). Una macchina medio formato 6×6 che la legherà per sempre al formato quadrato.

Inframezzati fra episodi recenti e passati si inseriscono loro, le fotografie. Non riprodotte (neanche in copertina!) ma raccontate. Ricostruisce gli scatti, Schefer, li descrive, ne parla con l’autrice, vede nei loro intenti, in trasparenza, il disagio che accompagna la fotografa in tutta la sua vita, quel disagio che forse la porterà alla sua ultima tragica decisione.

Toutes ses images ne formaient qu’une seule et même grande photographie en mouvement, qui est un film sans histoire et sans retour, immobile et muet.

Insomma un libro appassionante, a tratti angosciante. Un libro che, appena finito viene voglia di rileggere. Un po’ per ricomporre i tanti frammenti sparpagliati nella narrazione, un po’ per lasciarsi avvolgere ancora una volta da quelle atmosfere pazzesche: sia quelle delle fotografie della Woodman, sia quelle dell’intenso rapporto costruito e vissuto con lei, a posteriori, da Schefer.

Silvana-Woodman

Per addentrarsi negli scatti di Francesca Woodman c’è, fra i tanti, questo bel libro pubblicato da Silvana Editoriale nel 2010, a cura di Marco Pierini.

Per la cronaca 1: L’autore presenta il libro, ma soprattutto la sua esperienza che lo ha portato a scrivere il libro, in questo video.

Per la cronaca 2: Dovrebbe essere in uscita in marzo 2024 l’edizione italiana del libro pubblicata dall’editore Johan & Levi.

Per la cronaca 3: Schefer non trascura di menzionare le amicizie romane della fine degli anni ’70, quando organizzò a Roma anche una mostra fotografica, presso la libreria Maldoror dell’amico Giuseppe Casetti. Egli stesso organizzò una nuova mostra, sempre a Roma, nella sua nuova libreria, nel 2011. Se ne ragionò a suo tempo qui. Il favoloso catalogo della mostra, contenente anche alcuni scritti della Woodman, è stato pubblicato da AGMA.

Per la cronaca 4: Grande macchina, la Yashica 635, apprezzatissima da chi scrive queste righe ed usata molto spesso. Qui c’è il resoconto di alcune prove effettuate con questa macchina. Qui alcune prove con lenti addizionali. Questa macchina è stata utilizzata per realizzare la stragrande maggioranza delle esposizioni multiple per il progetto delle scimmiette sagge.

Pubblicato da: miclischi | 13 febbraio 2024

Altri tre romanzi di Jean-Baptiste Andrea

A

Pubblicati dal 2017 al 2021

Succede spesso: si legge un bel libro di un autore che non si conosceva e si vanno a esplorare altre sue opere, per cercare conferme e approfondire la capacità narrative dello scrittore.

Così fu dopo l’appassionante lettura del romanzo di Jean-Baptiste Andrea che si è aggiudicato il prestigioso Premio Goncourt 2023: Veiller sur elle (se ne ragionò qui)

Una ricerchina su internet ed eccoli qui, tra romanzi in formato tascabile, agili e veloci, letti uno dopo l’altro.

Des diables et des saints

Uscito nel 2021

Des diables et des saints, anche se fra i tre è quello pubblicato più recentemente, fu letto per primo. Colpisce subito, durante la lettura, ritrovare qui dei temi che saranno poi sviluppati più approfonditamente nel libro che ha vinto il Goncourt. Anche qui il protagonista è orfano, anche qui c’è un forte legame con una ragazzina, Rose, anche qui ci sono le difficoltà nel relazionarsi con gli altri, adattarsi a quel che gli altri vogliono, cercare di sottrarsi agli obblighi e agli stereotipi nella speranza di poter un giorno realizzare i propri sogni. All’inizio del libro verrà proposto un tema, ripreso qua e là, che ci si sarebbe aspettati che fosse più presente: il protagonista, da adulto, suona il pianoforte negli aeroporti, nelle stazioni, ovunque trovi uno strumento a disposizione di chi voglia sedersi e suonare (l’edizione italiana, pubblicata da Einaudi nella traduzione di Simona Mambrini, è intitolata L’uomo che suonava Beethoven e mostra in copertina una donna che poggia le dita su una tastiera). Ma forse proprio questa labilità del tema apparentemente dominante è uno dei punti di forza di questo romanzo.

Ma-reine

Uscito nel 2017

Ma reine è del 2017, il suo primo romanzo. Fu letto per secondo. Anche qui un ragazzino in fuga dalla sua vita difficile. Shell (così è chiamato il protagonista, perché quella scritta è bene in vista sul giubbotto che indossa, reliquia della stazione di rifornimento gestita dal padre) lascia i genitori per cercare se stesso nel bosco. Anche qui l’incontro con una ragazzina, Viviane, che condizionerà la sua vita. Anche in questo libro l’esigenza quasi inevitabile di consegnare se stesso e il proprio destino a un’altra persona, a una ragazza, subendone i capricci e gli incomprensibili cambi di rotta. Di nuovo la difficoltà – e il fascino – del relazionarsi con persone di provenienza diversa e con atteggiamenti difficili da decifrare. Di nuovo questa mescolanza esplosiva e inquietante di sogno e realtà. Davvero questi temi ricorrenti devono aver condizionato la vita e quindi anche la produzione letteraria di Andrea. Il romanzo è stato pubblicato in Italia da Einaudi nella traduzione di Simona Mambrini con il titolo Mia regina.

Cent millioins

Uscito nel 2019

Per finire, Cent millions d’années et un jour. Qui permangono i difficili rapporti familiari del bambino che poi da grande realizzerà il suo sogno di diventare paleontologo. Il sogno, ecco il tema principale: realizzare i propri sogni anche se ciò significa andare contro tutte le logiche e accettare tutte le conseguenze delle proprie scelte. Una spedizione sulle Alpi alla ricerca di uno scheletro preistorico sepolto fra i ghiacci.

Anche qui una ragazzina che incontra quando era ragazzino anche lui, Mathilde, che condizionerà tutta la sua vita. L’isolamento fra i ghiacci con i compagni d’avventura. Le difficili relazioni che si instaurano in quelle condizioni estreme. Fiducia o sfiducia? Ammirazione o disprezzo? I sentimenti si mescolano e inducono il protagonista a fare soprattutto i conti con se stesso, nel bene e nel male. Pare che al momento di scrivere queste righe non sia ancora disponibile l’edizione italiana.

Insomma tre letture piacevoli e agili. Leggendoli ci si è resi conto come Andrea stesse rimuginando e lavorando da tempo sulle tematiche per lui importanti, imprescindibili.  E dopo anni di lavoro su romanzi ricchi e sfaccettati se pur non grandiosi, è sfociato finalmente nel capolavoro che giustamente si è aggiudicato il Goncourt 2023. E ora, cosa aspettarsi ancora da Jean-Baptiste Andrea? Si aspetterà e si vedrà. Intanto ci si è goduta proprio parecchio una scorpacciata di suoi libri.

Pubblicato da: miclischi | 6 febbraio 2024

L’ennesima Bohème al Teatro Verdi di Pisa

bartoli-teatro

Ariecco La Bohème a Pisa.

2 febbraio 2024: ritorna La Bohème di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Pisa. L’ultima volta era stata nel 2019 e il libretto di sala informa che quest’opera è stata rappresentata nel teatro pisano ben settantanove volte.

Opera commovente, si sa, La Bohème. Commovente e coinvolgente, non solo per le sfortunate vicende di Mimì (povera piccina); ma forse anche perché ogni volta che si va a vederla tornano a galla ricordi remoti di una vita. La più recente, naturalmente, quella sessantottina dell’anno scorso al Festival Pucciniano a Torre del Lago. Ma anche ricordi dei primi ascolti, oltre cinquant’anni fa, dei dischi EMI con Callas e Di Stefano, ascolti ripetutissimi fino a impararla quasi tutta a memoria, con la nonna Jone che si sdilinquiva. E poi le lunghe code con i compagni di liceo (venivano programmati accuratissimi turni fin dalla mattina) per aggiudicarsi i biglietti del loggione. Un ricordo indelebile è legato alla prova generale dell’opera nell’aprile 1973 con Giacomo Aragall nel ruolo di Rodolfo: stupì con la sua bravura e qualcuno commentò che, specie nel finale del primo atto, era anche meglio di Di Stefano. Si mormorava che i cantanti nei ruoli di Rodolfo e Mimì erano proprio innamorati come i personaggi che interpretavano…

Boheme 1973

Alle prove nel 1973…

E poi a scuola, quando durante la ricreazione si cantava tutto il primo atto (interpretando tutti i ruoli) con Gigi. Fra l’altro, il caso volle che proprio il giorno dopo questa Bohème del 2024 ci si incontrò a cena con alcuni compagni di liceo; parlando dell’opera ritornò normale come una volta inserire qua e là nella conversazione, come se nulla fosse, citazioni dal libretto che tutti ricordavano benissimo. Eh sì, tornare a rivedere La Bohème è sempre un’esperienza emotiva e rievocativa molto forte.

Beh, e questa Bohème del 2024? Andando a teatro si rifletteva su come questa rappresentazione si annunciasse come diametralmente opposta alla precedente: dopo un’opera mai vista e sentita prima (L’incoronazione di Poppea di Monteverdi), eccone una che si era già vista e sentita le proverbiali dumila volte.

All’alzarsi del sipario questa sensazione di diametralmente opposta si è ulteriormente confermata. Dopo un bel po’ di opere qui al Verdi  con scene vere, riecco le obbrobriose e pacchiane proiezioni. L’assenza di scene vere e proprie è stata confermata dal fatto che il secondo atto è iniziato subito dopo la fine del primo. Infatti le scene non ci sono, e basta cambiare le proiezioni. E questa sarebbe la soffitta dei cellettoni parigini? Perché viene rappresentata come un ambiente grandioso? E poi, perché Marcello inveisce contro il Mar Rosso non mentre dipinge, ma mentre si versa un bicchiere? E via dicendo. Insomma, una messa in scena davvero non entusiasmante, proprio come la regia (entrambe di Cristina Mazzavillani Muti). Perché Rodolfo, conversando con Mimì al loro primo incontro, si rivolge al pubblico invece che a lei che se ne sta in fondo alla scena sola soletta? Si sa, gli interpreti (e in particolare scenografi e registi) sono liberi di interpretare; ma queste scelte non sono state particolarmente gradite.

Boheme 2024

La Boheme del 2024 a Pisa.

E le voci? Il Rodolfo di Alessandro Scotto di Luzio non ha particolarmente convinto; come se facesse fatica a controllare la voce. Alla fine del primo atto poi, un  po’ ce lo si aspettava, nel terzo amor non si è lanciato nell’atteso acuto. Anche il Marcello di Christian Federici non ha entusiasmato. Anche se entrambi si sono poi affinati negli atti successivi. Piacevolissima invece l’interpretazione di Colline (Vittorio De Campo) e Schaunard (Clemente Antonio Daliotti), particolarmente graditi anche dal pubblico. L’episodio dell’arrivo del padrone di casa, Benoit (Fabio Baruzzi) è stato decisamente improntato in modo macchiettistico e ha funzionato bene, grazie anche alla prestazione di Baruzzi il quale fra l’altro, nella sua interpretazione di Benoit, a qualcuno di noi pisani è apparso molto somigliante a un ipotetico Marco Malvaldi parecchio invecchiato. La Mimì di Elisa Verzier, a parte il relegarla nel retroscena in cima a una scala invece che nel presunto appartamentino, ha fatto la sua parte, anche se a dire il vero anche lei non ha particolarmente entusiasmato (anche nel suo caso la prestazione mostrerà un crescendo negli atti successivi).

Fin dal primo atto, invece, convince e come l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini sotto la guida del Maestro Nicola Paszkowski. Un suono intenso e pure delicato (a differenza delle voci dei personaggi principali), con tutte le sezioni dell’orchestra affiatate e ben performanti, con un particolare risalto nella sezione dei fiati. Proprio un bel sound che mette in risalto le capacità compositive e di orchestrazione di Puccini.

Come detto, il secondo atto è iniziato subito dopo la fine del primo. Il grande caos del Café Momus è reso dall’affollamento della scena. Forse del caos supplementare causato dalle proiezioni si poteva anche fare a meno. I solisti, il coro (Coro Teatro Municipale di Piacenza), le voci bianche (Coro di Voci Bianche Bonamici di Pisa), la Banda della Società Filarmonica Pisana… Il caos ci deve essere e c’è, anche se all’inizio si perdono un po’ le voci dei solisti. E poi c’è lui, Parpignol il giocattolaio. Interpretato magistralmente dal mimo Ivan Merlo che ci ha fatto proprio la sua figura. Naturalmente qui arriva anche Musetta (Alessia Pintossi) che ha di molto ben figurato, sia nelle sue movenze sceniche che nella voce, forse l’interprete più convincente fra i quattro della doppia coppia. Alla fine dell’atto un piccolo fuori programma: al ritorno sul palco del coro, delle voci bianche e della banda, quest’ultima si esibisce in un micro-encore e la voce bianca solista si riesibisce nel suo vo’ la tromba, il cavallin! Una micro-performance aggiuntiva brevissima e gioiosa, molto gradita dal pubblico.

Terzo atto, quello di solito un po’ più moscio degli altri. Siamo alle porte della città e cade la neve. Non ci sono più i ritagli di carta che cadono dall’alto come usava una volta. Qui, naturalmente c’è una proiezione. Neve che cade fitta fitta e nasconde gli interpreti, vortica tutto il tempo in un modo che fa quasi venire il mal di mare. Poi la neve turbinante si riflette sul pavimento del palco (cosa che dalla platea non si vede ma dal palco sì), creando un fastidiosissimo effetto specchio che coinvolge anche gli interpreti. Anche di questo si poteva fare a meno. Le voci, in questo atto più tenue, si esprimono meglio. A parte la neve, tutto sommato quest’atto è risultato godibile.

Boheme libretto

Il libretto del 1973. Prezzo: 450 lire.

Si torna nella soffitta per l’ultimo atto.  I quattro amici si inventano un cenone con balli attorno al tavolino. Peccato che quello stesso tavolino poi diventerà il lettino su cui giace Mimì (poveretta Mimì, ma anche Elisa Verzier su quelle tavole dure…). Come nell’atto precedente, anche qui l’atmosfera tenue e rarefatta favorisce le voci e in particolare Elisa Verzier dà proprio il meglio in questo tragico finale. Graditissima dal pubblico anche la Vecchia zimarra interpretata dal basso Vittorio De Campo.

Poi, tutto finisce con gli applausi. I cantanti sono stati osannati, diamine, ma è parso di notare applausi quasi di circostanza, mentre l’applausometro ha registrato dei picchi in particolare per la Musetta di Alessia Pintossi e il Colline di Vittorio De Campo, oltre che per l’apprezzatissima Orchestra e il suo Direttore, Nicola Paszkowski. Il cartellone completo si trova qui.

Insomma, si esce dal teatro un  po’ scapeggiando. La Bohème è sempre la Bohème, e come detto smuove ricordi emozioni, commozioni. Ma questa rappresentazione, nel suo complesso non è che sia garbata più di tanto.

Per la cronaca: La sera prima della rappresentazione dell’opera, come di consueto, si è tenuta nel foyer del teatro una presentazione dell’opera stessa. Un’occasione parecchio diversa da tutte le altre cui si era assistito: non c’è il Direttore Artistico, non c’è il Direttore d’orchestra né la regista. C’è solo lui, Riccardo Mascia, con il suo pianoforte. Tranne brevi interventi di un amico di Mascia che ha interpretato componimenti sulla Boheme in vernacolo pisano dei tempi antichi, e della Maestra del coro di voci bianche Angelica Ditaranto, ha fatto tutto lui, Riccardo Mascia. Non si parla di scelte interpretative (musicali, sceniche o registiche), ma si parla dell’opera, delle critiche che ricevette dopo la sua prima rappresentazione, soprattutto della musica. Mascia siede alla tastiera; suona, parla, canta (interpretando tutte le parti, come si faceva con Gigi al ginnasio). Ha messo un accento particolare, Mascia, sul prevalere – in quest’opera – della musica sul canto. Insomma, una presentazione davvero diversa dal solito e graditissima.

Pubblicato da: miclischi | 5 febbraio 2024

Daniele Segre se ne va

(C) 2009,Michele Lischi

Daniele Segre (1952-2024) con Luciano Lischi (1925-2010) durante la realizzazione del film a lui dedicato (“Luciano Lischi, editore”, 2010). Si creò fra i due un’intesa speciale. Ora ci mancherà anche Daniele.

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