Ariecco La Bohème a Pisa.
2 febbraio 2024: ritorna La Bohème di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Pisa. L’ultima volta era stata nel 2019 e il libretto di sala informa che quest’opera è stata rappresentata nel teatro pisano ben settantanove volte.
Opera commovente, si sa, La Bohème. Commovente e coinvolgente, non solo per le sfortunate vicende di Mimì (povera piccina); ma forse anche perché ogni volta che si va a vederla tornano a galla ricordi remoti di una vita. La più recente, naturalmente, quella sessantottina dell’anno scorso al Festival Pucciniano a Torre del Lago. Ma anche ricordi dei primi ascolti, oltre cinquant’anni fa, dei dischi EMI con Callas e Di Stefano, ascolti ripetutissimi fino a impararla quasi tutta a memoria, con la nonna Jone che si sdilinquiva. E poi le lunghe code con i compagni di liceo (venivano programmati accuratissimi turni fin dalla mattina) per aggiudicarsi i biglietti del loggione. Un ricordo indelebile è legato alla prova generale dell’opera nell’aprile 1973 con Giacomo Aragall nel ruolo di Rodolfo: stupì con la sua bravura e qualcuno commentò che, specie nel finale del primo atto, era anche meglio di Di Stefano. Si mormorava che i cantanti nei ruoli di Rodolfo e Mimì erano proprio innamorati come i personaggi che interpretavano…
Alle prove nel 1973…
E poi a scuola, quando durante la ricreazione si cantava tutto il primo atto (interpretando tutti i ruoli) con Gigi. Fra l’altro, il caso volle che proprio il giorno dopo questa Bohème del 2024 ci si incontrò a cena con alcuni compagni di liceo; parlando dell’opera ritornò normale come una volta inserire qua e là nella conversazione, come se nulla fosse, citazioni dal libretto che tutti ricordavano benissimo. Eh sì, tornare a rivedere La Bohème è sempre un’esperienza emotiva e rievocativa molto forte.
Beh, e questa Bohème del 2024? Andando a teatro si rifletteva su come questa rappresentazione si annunciasse come diametralmente opposta alla precedente: dopo un’opera mai vista e sentita prima (L’incoronazione di Poppea di Monteverdi), eccone una che si era già vista e sentita le proverbiali dumila volte.
All’alzarsi del sipario questa sensazione di diametralmente opposta si è ulteriormente confermata. Dopo un bel po’ di opere qui al Verdi con scene vere, riecco le obbrobriose e pacchiane proiezioni. L’assenza di scene vere e proprie è stata confermata dal fatto che il secondo atto è iniziato subito dopo la fine del primo. Infatti le scene non ci sono, e basta cambiare le proiezioni. E questa sarebbe la soffitta dei cellettoni parigini? Perché viene rappresentata come un ambiente grandioso? E poi, perché Marcello inveisce contro il Mar Rosso non mentre dipinge, ma mentre si versa un bicchiere? E via dicendo. Insomma, una messa in scena davvero non entusiasmante, proprio come la regia (entrambe di Cristina Mazzavillani Muti). Perché Rodolfo, conversando con Mimì al loro primo incontro, si rivolge al pubblico invece che a lei che se ne sta in fondo alla scena sola soletta? Si sa, gli interpreti (e in particolare scenografi e registi) sono liberi di interpretare; ma queste scelte non sono state particolarmente gradite.
La Boheme del 2024 a Pisa.
E le voci? Il Rodolfo di Alessandro Scotto di Luzio non ha particolarmente convinto; come se facesse fatica a controllare la voce. Alla fine del primo atto poi, un po’ ce lo si aspettava, nel terzo amor non si è lanciato nell’atteso acuto. Anche il Marcello di Christian Federici non ha entusiasmato. Anche se entrambi si sono poi affinati negli atti successivi. Piacevolissima invece l’interpretazione di Colline (Vittorio De Campo) e Schaunard (Clemente Antonio Daliotti), particolarmente graditi anche dal pubblico. L’episodio dell’arrivo del padrone di casa, Benoit (Fabio Baruzzi) è stato decisamente improntato in modo macchiettistico e ha funzionato bene, grazie anche alla prestazione di Baruzzi il quale fra l’altro, nella sua interpretazione di Benoit, a qualcuno di noi pisani è apparso molto somigliante a un ipotetico Marco Malvaldi parecchio invecchiato. La Mimì di Elisa Verzier, a parte il relegarla nel retroscena in cima a una scala invece che nel presunto appartamentino, ha fatto la sua parte, anche se a dire il vero anche lei non ha particolarmente entusiasmato (anche nel suo caso la prestazione mostrerà un crescendo negli atti successivi).
Fin dal primo atto, invece, convince e come l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini sotto la guida del Maestro Nicola Paszkowski. Un suono intenso e pure delicato (a differenza delle voci dei personaggi principali), con tutte le sezioni dell’orchestra affiatate e ben performanti, con un particolare risalto nella sezione dei fiati. Proprio un bel sound che mette in risalto le capacità compositive e di orchestrazione di Puccini.
Come detto, il secondo atto è iniziato subito dopo la fine del primo. Il grande caos del Café Momus è reso dall’affollamento della scena. Forse del caos supplementare causato dalle proiezioni si poteva anche fare a meno. I solisti, il coro (Coro Teatro Municipale di Piacenza), le voci bianche (Coro di Voci Bianche Bonamici di Pisa), la Banda della Società Filarmonica Pisana… Il caos ci deve essere e c’è, anche se all’inizio si perdono un po’ le voci dei solisti. E poi c’è lui, Parpignol il giocattolaio. Interpretato magistralmente dal mimo Ivan Merlo che ci ha fatto proprio la sua figura. Naturalmente qui arriva anche Musetta (Alessia Pintossi) che ha di molto ben figurato, sia nelle sue movenze sceniche che nella voce, forse l’interprete più convincente fra i quattro della doppia coppia. Alla fine dell’atto un piccolo fuori programma: al ritorno sul palco del coro, delle voci bianche e della banda, quest’ultima si esibisce in un micro-encore e la voce bianca solista si riesibisce nel suo vo’ la tromba, il cavallin! Una micro-performance aggiuntiva brevissima e gioiosa, molto gradita dal pubblico.
Terzo atto, quello di solito un po’ più moscio degli altri. Siamo alle porte della città e cade la neve. Non ci sono più i ritagli di carta che cadono dall’alto come usava una volta. Qui, naturalmente c’è una proiezione. Neve che cade fitta fitta e nasconde gli interpreti, vortica tutto il tempo in un modo che fa quasi venire il mal di mare. Poi la neve turbinante si riflette sul pavimento del palco (cosa che dalla platea non si vede ma dal palco sì), creando un fastidiosissimo effetto specchio che coinvolge anche gli interpreti. Anche di questo si poteva fare a meno. Le voci, in questo atto più tenue, si esprimono meglio. A parte la neve, tutto sommato quest’atto è risultato godibile.
Il libretto del 1973. Prezzo: 450 lire.
Si torna nella soffitta per l’ultimo atto. I quattro amici si inventano un cenone con balli attorno al tavolino. Peccato che quello stesso tavolino poi diventerà il lettino su cui giace Mimì (poveretta Mimì, ma anche Elisa Verzier su quelle tavole dure…). Come nell’atto precedente, anche qui l’atmosfera tenue e rarefatta favorisce le voci e in particolare Elisa Verzier dà proprio il meglio in questo tragico finale. Graditissima dal pubblico anche la Vecchia zimarra interpretata dal basso Vittorio De Campo.
Poi, tutto finisce con gli applausi. I cantanti sono stati osannati, diamine, ma è parso di notare applausi quasi di circostanza, mentre l’applausometro ha registrato dei picchi in particolare per la Musetta di Alessia Pintossi e il Colline di Vittorio De Campo, oltre che per l’apprezzatissima Orchestra e il suo Direttore, Nicola Paszkowski. Il cartellone completo si trova qui.
Insomma, si esce dal teatro un po’ scapeggiando. La Bohème è sempre la Bohème, e come detto smuove ricordi emozioni, commozioni. Ma questa rappresentazione, nel suo complesso non è che sia garbata più di tanto.
Per la cronaca: La sera prima della rappresentazione dell’opera, come di consueto, si è tenuta nel foyer del teatro una presentazione dell’opera stessa. Un’occasione parecchio diversa da tutte le altre cui si era assistito: non c’è il Direttore Artistico, non c’è il Direttore d’orchestra né la regista. C’è solo lui, Riccardo Mascia, con il suo pianoforte. Tranne brevi interventi di un amico di Mascia che ha interpretato componimenti sulla Boheme in vernacolo pisano dei tempi antichi, e della Maestra del coro di voci bianche Angelica Ditaranto, ha fatto tutto lui, Riccardo Mascia. Non si parla di scelte interpretative (musicali, sceniche o registiche), ma si parla dell’opera, delle critiche che ricevette dopo la sua prima rappresentazione, soprattutto della musica. Mascia siede alla tastiera; suona, parla, canta (interpretando tutte le parti, come si faceva con Gigi al ginnasio). Ha messo un accento particolare, Mascia, sul prevalere – in quest’opera – della musica sul canto. Insomma, una presentazione davvero diversa dal solito e graditissima.