Non è una scrittura che cattura fin dall’inizio, quella di Luís Cardoso. Anzi. Nonostante gli avvertimenti che l’editore ci presenta prima dell’inizio del libro, dapprima si fa un po’ di fatica ad accostumarsi a quel modo di narrare. Sembra spezzato, esitante, poco lineare e apparentemente titubante. C’è un tornare delle stesse frasi, delle stesse citazioni che all’inizio pare quasi ossessivo. Stiamo parlando del libro Requiem per il navigatore solitario, uscito nel 2007 e pubblicato in italiano tre anni dopo dalle edizioni dell’ Urogallo di Perugia.
Poi, pagina dopo pagina, quel modo di raccontare, quel calarsi con così tanta naturalezza nell’io narrante (una ragazza cinese sballottata in situazioni a dir poco disagevoli fino a Timor Est), quel mischiare senza esitazione il pensato e il detto, l’immaginato e il vissuto… Alla fine si cede a questo ritmo strano, a questo relazionarsi fra i personaggi che approdano in quell’angolo di Oriente inseguendo le avventure più disparate, a queste ambientazioni magiche che echeggiano certe narrazioni latino-americane. Eppure, lo spiega l’editore/curatore sulla pagina web dedicata a questo libro sul suo catalogo, siamo all’altro capo del mondo: Requiem per il navigatore solitario è un romanzo orientale scritto in portoghese, un acquarello letterario ambientato nella Timor coloniale degli anni Quaranta sospesa tra le paure di un’imminente invasione giapponese e la speranza di un intervento australiano a margine della Seconda Guerra Mondiale.
Alla fine ci si sente cullare, da quella vicenda stramba, da quella lingua che si piega alle esigenze della storia (e che, così pare, è stata ben tradotta da Marco Bucaioni). Si accavallano i pensieri intimi e le enunciazioni pubbliche; si intersecano – anche nelle scelte di impostazione grafica – il discorso diretto, la narrazione, quel che sta per esser detto, quel che è solo pensato; si mescolano uomini e gatti, europei e asiatici, militari e civili; scoppia la guerra – l’epilogo della storia si svolge infatti nel 1941 – si accavallano vicende coloniali e tribali, storie di mare e di terra, agricoltori e marinai, finché, finalmente, arriva lui, il navigatore solitario, quell‘Alain Gerbault che davvero in quegli anni vagava con la sua barca a vela fra le isole del pacifico, ed approdò per l’ultima volta proprio a Timor Est.
Non si commosse per il fatto di trovare il suo libro nelle mani di una ragazza persa in un’isola alla fine del mondo. Il libro, uno dei vari resoconti di viaggi di mare scritti da Gerbault era A la poursuite du Soleil , e suo autore era da sempre un mito della giovanissima cinese quando era ancora in attesa del suo principe azzurro. In queste pagine dedicate all’arrivo del navigatore solitario, e del suo incontro con Catarina, c’è una specie di senso di redenzione, di ribaltamento del senso di una vita fatta di angustie, di rinunce, di violenze e di disastri. Dopo tutto, forse, quel vagare da solo sulla sua barca a vela per correr dietro al sole fa del navigatore solitario il vero eroe nell’immaginario di Catarina. Lei, che si è accollata amanti, figli (suoi e non suoi), gatti, colonialisti portoghesi e briganti locali, alla fine anche i soldati australiani e poi giapponesi, dopo che anche la sua casa con la pergola di Bouganvillea è andata perduta, alla fine trova la sua pace solo rifugiandosi nella barca rimasta deserta.
Un libro godibilissimo, un autore tutto da esplorare, tanti spunti per ulteriori indagini (quella terra martoriata dall’altra parte del mondo; quel navigatore solitario che, nonostante sia stato evidentemente un personaggio alquanto controverso e contestatissimo ai suoi tempi – lo racconta in dettaglio questa pagina web – è stato comunque un pioniere della navigazione solitaria a vela).
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